di Pietro Sotgiu
L’ipertensione arteriosa può essere considerata una “sindrome cardiovascolare“, spesso asintomatica che, se non diagnosticata, determina eventi acuti come l’infarto del miocardio e l’ictus cerebrale. I risultati degli studi epidemiologici degli ultimi anni evidenziano l’enormità del problema ipertensione arteriosa con una prevalenza di oltre 30-45% nella popolazione generale, con percentuali che possono arrivare al 70/80% negli anziani. Nonostante queste chiare evidenze, la percentuale di ipertesi diagnosticati e trattati in modo efficace è ancora molto bassa (meno di un terzo in Italia). La sfida è quindi quella di individuare il maggior numero possibile di pazienti ipertesi e modificare i rischi indotti dall’ipertensione arteriosa con un’appropriata terapia, che risulta tanto più efficace quanto più precocemente viene intrapresa.
La diagnosi clinica si basa sulla misurazione dei valori di pressione sistolica e diastolica (comunemente conosciute come pressione massima e minima). I valori normali di pressione arteriosa standard secondo le linee guida sono 120/80 mmHg. La pressione “normale alta” rileva invece valori pressori sistoilici tra i 130/139 mmHg e diastolici tra gli 85/89 mmhg (Tabella 1). Normalmente l’ipertensione arteriosa non ha una causa specifica ma la genesi è multifattoriale e viene chiamata “ipertensione essenziale”. Coinvolge circa il 90% dei soggetti ipertesi mentre il restante 10% soffre di pressione secondaria”, più frequente in età giovanile.
Il paziente iperteso, oltre ad avere valori pressori superiori alla norma può presentare altri sintomi aspecifici quali cefalea, dispnea, palpitazioni e/o dolori precordiali. In aggiunta ai livelli di pressione arteriosa è necessario quantificare il rischio cardiovascolare totale al fine di poter sfruttare appieno il supporto costo/beneficio della gestione dell’ipertensione.
il medico che rileva alti valori pressori deve sottoporre il paziente a semplici esami clinicp-strumentali:
– attenta anamnesi ed esame clinico
– elettrocardiogramma
– radiografia del torace
– esami di laboratorio (azotemia, creatininemia, elettroliti sierici, esame urine con dosaggio delle microalbuminuria, esame emocromocitometrico, colesterolemia, trigliceridemia, glicemia).
Dopo aver esaminato i risultati, il medico decide se suggerire al paziente una terapia farmacologica con i farmaci a disposizione secondo le linee guida e/o decidere di rimandare l’assunzione dell’ipotensivante e continuare l’osservazione clinica, raccomandando la correzione dello stile di vita (non fumare, dieta iposodica, attività fisica, etc…).
Solo in caso di ripetuti episodi di labile controllo dei valori pressori si può procedere con ulteriori indagini:
– ecocardiogramma 2d color doppler
– ecografia doppler delle arterie renali
– ecografia doppler dei tronchi sovraortici
– velocità onda pulsatoria
– indice ABI (ankle-brachial index)
– fondo oculare
– esami di laboratorio (funzionalità tiroidea e filtrato glomerulare).
In considerazione dell’importanza delle modificazioni asintomatiche della struttura e/o della funzione di alcuni organi come espressione della progressione della patologia nel continuum cardiovascolare, appropriate metodiche si rendono in certi casi utili per ricercare i segni di interessamento d’organo. L’indice ABI ad esempio riveste importanza nel concetto di marker di danno aterosclerotico plidistrettuale: valori <0,9 sono considerati una spia di una possibile arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori, meritevoli di un ulteriore approfondimento diagnostico con ecocolor-doppler.
Di facile esecuzione, non ha costi aggiuntivi e si può effettuare presso il proprio ambulatorio con un doppler analogico sonoro portatile e lo sfigmomanometro.
Quando si sospetta in base alla propria esperienza clinica un netto coinvolgimento dell’albero coronarico, il calcolo del calcium score, che si esegue di prassi prima di procedere alla tac cardiaca multistrato (meglio la TAC 256 strati), esprime con una percentuale il danno aterosclerotico del paziente ed un primo livello di possibile gravità della patologia ateromasica coronarica, oltre a dare indicazioni al tecnico radiologo di come posizionare i gain e la finestra tomografica dell’apparecchiatura TAC, onde evitare false immagini ed artefatti durante l’esecuzione della TAC cardiaca.
La quantificazione del calcio coronarico è altamente efficace nella ristratificazione dell’adulto asintomatico sia nella categoria di rischio mdoerato che elevato, tuttavia la limitata disponibilità e l’alto costo della strumentazione necessaria rappresentano una seria problematica.
La risonanza magnetica cardiaca, altra indagine ad alto costo, è rochiesta per un’approfondita valutazione della funzionalità ventricolare sinistra, con una sensibilità e specificità molto più attendibile della classica misurazione della frazione di elezione all’ecocardiogramma, in quanto lavora su piani tridimensionali molto più vicini alla verca conformazione “elissoide” del ventricolo sinistro.
La risonanza magnetica cardiaca inoltre valuta molto bene aree di necrosi, la vitalità segmentaria del muscolo cardiaco, la presenza di eventuali masse intracardiache, ma anche lo stesso circolo coronarico con una “application” diversa dalla CORO-TAC.
Questo semplice approccio clinico-diagnostico consente di prescrivere in maniera appropriata gli esami di laboratorio e strumentali finalzizati al più corretto inquadramento del paziente operteso tenendo conto dell’età, del sesso e di eventuali comorbilità. In ultima analisi possiamo considerare le indagini strumentali con un’alta definizione dignostica che aiutano il clinico all’ottimizzazione terapeutica.